Eravamo insieme, come spesso accadeva in quel perimetro della nostra infanzia estiva dove gli alberi di fichi non lasciavano neanche un metro quadro al cemento degli uomini, pronti dal muretto a correre per rubare i frutti facendo a gara a chi venisse scoperto per primo.

Quindi la noia, quando tutto finisce, il gioco che non ne alimenta un altro, la testa di entrambi che si ingegna per trovare una nuova impresa di cui sentirsi eroi, la solita proposta prima del ritorno alla vita serale da anziani con cui finiva ogni giornata di quella villeggiatura, facciamo due tiri?, il calcio come esaudimento universale di desiderio.

Ed ecco il tesoro da recuperare, il nostro Tango lurido, il ricordo dell’ultima volta in cui avevamo combattuto per un goal, la gita in Riviera di cui condividevamo memoria che ci parlava, ci ricordava che era la Panda di famiglia la nostra isola dello Scheletro. Ci dirigemmo all’auto, sapendo che in quella bolla di antichità provinciale com’era il nostro paese fosse la prassi lasciare aperto almeno dietro.

Il portabagagli, proclamai certo di questo, come un ferrato della scientifica che intuisce da due o tre particolari dove possa essere il corpo. Mi proposi per entrare, ero più piccolo, più emozionato, io, quello dei due che voleva sentire addosso il riconoscimento dell’altro. La sfera era ficcata sotto il sedile del passeggero; raggiunta, gliela lanciai, per rendermi possibile scavalcare i sedili e uscire fuori senza rompermi qualcosa.

Testo di Michele Vaccari

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